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L'Uomo che Uccise Lucky Luke

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Proprio ultimamente, in riferimento a Sotto il Sole di Mezzanotte, si parlava delle strade diverse che si possono imboccare per portare avanti una pesante eredità legata a certi personaggi dei fumetti. Due, in particolare: una che sostenga quanto già fatto percorrendo il solco della tradizione e l'altra che riparta da zero, aggiungendo nuovi tasselli all'opera e impremendo magari una visione personalissima o quantomeno alternativa.


Con Lucky Luke, in realtà, la prima viene già percorsa da parecchi anni. A parte lo storico passaggio di testimone tra Morris e Goscinny ai testi, successivamente abbiamo assistito ad un ampliamento del parco scrittori a partire dal 1980 con Bob de Groot, Xavier Fauche, "Lo" Hartog van Banda, Guy Vidal o Jean Léturgie. Ma alla scomparsa di Morris nel 2001 si è dovutoripensare ex novo alla coppia creativa. E a partire dal 71° albo (Lucky Luke in Québec, 2004) si sono alternati ai testi Laurent Gerra, Tonino Benacquista e addirittura Daniel Pennac, mentre al tavolo da disegno ha preso stabilmente posto Hervé Darmenton, meglio noto comeAchdé.

A percorrere invece la seconda strada, quella più fantasiosa e libertina, ci ha pensato proprio recentementeMatthieu Bonhomme che nel 2016 ha confezionato, come autore completo, L'Uomo che Uccise Lucky Luke (L'homme qui tua Lucky Luke), una storia che non rientra nemmeno nella cronologia ufficiale del personaggio ma cheè semplicemente un personale tributo a Morrise che rappresenta, per il lettore, unLucky Lukenon inedito, ma di sicuro alternativo a quello classico.
Il punto di vista di Bonhomme si focalizza infatti su una versione più realistica dei personaggi ed è costellata da un'ironia meno pungente e più sorniona.L'autore (già noto in Italia per il bellissimo Texas Cowboys realizzato in coppia con Lewis Trondheim e pubblicato da ReNoir) si prende quindi la briga e lalibertà di reinterpretare il canone goscinnyano con il rispetto dovuto, ma donando una visione più drammatica e ordinaria.
E per farlo parte dallo scioccante presupposto platealmente già annunciato nel titolo del volume che vede appunto la morte del leggendario Lucky Luke sin dalla prima tavola, per percorrere poi a ritroso gli avvenimenti che hanno portato a questo infausto evento.


La storia in due righe è questa: in una notte di tempesta, Lucky Luke arriva a Froggy Town, un fangoso villaggio che come molti altri, in quel periodo, è popolato da un pugno di uomini che persegue il folle sogno di trovare l'oro. 
Lukeè solo di passaggio, ma non può rifiutarela richiesta d'aiuto dei minatori che gli chiedono di trovare l'indiano che la settimana precedente ha derubato la diligenza che trasportava l'oro tanto faticosamente raccolto.
Con l'aiuto di Doc Wednesday, pistolero sbevazzone e malaticcio, Lucky Lukeconduce un'indagine contro il volere della famiglia Bone, fratelli senza scrupoliche aFroggy Town hanno riscritto la legge a proprio uso e consumo.

Quella di Bonhomme, insomma, è una visione realistica arricchita da rimandie citazioni provenienti dal western cinematografico. Cliché e stereotipi ci sono tutti e a voler essere sinceri la storia non decolla particolarmente in quanto a originalità. Per fortuna lo scopo era anche un altro. Quello di far divertire il lettore restituendogli appunto un personaggio a lui caro, rivisto e corretto secondo nuove misure. Divertenti, in questo senso, i siparietti di Luke che cerca continuamente di rollare del tabacco senza riuscirci, omaggiando il passaggio di consegne tra la classica sigaretta e il noto filo d'erba che avvenne quando Morris decise che il suo personaggio non avrebbe più fumato (e per la quale, nel 1988, fu addirittura insignito di un riconoscimento ufficiale da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità).


Discorso a parte merita invece la parte grafica. Bonhommerealizza 64 tavole meravigliose che impreziosiscono mirabilmente questo volume. Il tratto dell'autore è curato e dinamico e la sua Froggy Town fangosa e battuta dalla scrosciante tempesta d'acqua è  a dir poco spettacolare. 
Un applauso, infine, va anche a NonArte che confezione il tutto con la solita cura (anche se sarebbero stati graditiun paio di accenni all'autore e alla sua visione) che sceglie di pubblicare il tutto in uno spettacolare cartonato formato gigante (ben 23,5x31 cm) che avvolge letteralmente il lettore nella burrascosa atmosfera della storia.

Alla fine qualcuno, anche giustamente, si è chiesto se questo Lucky Luke servisse o meno. Me lo sono chiesto anch'io, ma tendenzialmente sarei portato a rispondere con un'altra domanda: perché no?

La cover del settimanale Spirou realizzata da Bonhomme a febbraio 2016.

I bastardi del sud

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L'avevo richiesto a gran voce alla fine di questo post e alla fine è arrivato in tutte le fumetterie italiche grazie alla Panini Comics.
Ci sarebbero parecchie cose da dire, ma quella più importante è che si, Southern Bastards si è rivelato quel gran gioiello di cui si è tanto parlato in giro. Questo primo volume, intitolato Questo era un uomo, raccoglie la prima breve run composta da soli quattro episodi.

Jason Aaron non si perde in fronzoli e mentre presenta i personaggi al lettore, dispiega una trama feroce e violenta come tutti si aspettavano. Earl Tubbè una vecchia roccia che in gioventù ha preferito il vietnam piuttosto che rimanere a Craw County, un villico paesotto nello Stato dell'Alabama.
Ma alcuni affari in sospeso, su tutti la rivendita della vecchia casa del padre, ex sceriffo del paese ora defunto, lo riportano lì a distanza di tanti anni solo per scoprire, dopo appena una mezza giornata, che invece non avrebbe mai dovuto rimetterci piede.


Sulla sua strada si piazza la sgangherata e violenta squadra di football locale che fa capo a coach Boss (nomen omen) che Earl si incaponisce di fermare con una mazza, firmata da autentiche star del baseball, che suo padre prima di lui utilizzava quando le cose esigevano una drastica risoluzione.

Vecchi rugosi con grossi problemi caratteriali, morti, mazzate a vanvera, la cucina del sud, lo sport, i redneck. Una profonda e attuale riflessione, in parte esasperata e volutamente ottusa, sul cosa voglia dire, nei profondi meandri del sud, essere davvero uomini (non importa il Paese, il sud è sud) e su come si debba sgomitare a botte per guadagnarsi il proprio posticino all'ombra cercando di non soccombere.


Aaron racconta una storia profonda con una maestria invidiabile e con tempi narrativi veloci e mai forzati (cosa che altri suoi colleghi avrebbero fatto, forse peggio, nel doppio degli albi) e di certo non si ferma agli stereotipi di genere, sfoggiando un'ottima caratterizzazione dei personaggi e una buona serie di colpi di scena che scandiscono un sapientissimo uso del cliffhanger.

Cosa dire invece di Jason Latour? Quello che si sta distinguendo come uno degli scrittori e disegnatori più freschi e interessanti del panorama americano (mainstream e non), qui è "relegato" al solo tavolo da disegno. Le sue facce rugose, le smorfie contorte dei suoi personaggi, il dinamismo esplosivo delle scene d'azione e la sua composizione grafica rappresentano una brocca d'acqua ghiacciata in pieno deserto.


Nessuno meglio dei due Jason, Aaron e Latour, poteva raccontare meglio una storia del genere. Tra lo scrittore e il cartoonist si è instaurata sin dalla prima vignetta una meravigliosa alchimia, sorretta anche dal fatto che entrambi sono effettivamente cresciuti in certe terre desolate e meravigliose allo stesso tempo (il primo è proprio originario di Birmingham, in Alabama, mentre il secondo di Charlotte, nella Carolina del nord).

Nient'altro da aggiungere se non che il finale è davvero il classico pugno nello stomaco e che il suo epilogo ti fa salire la fame chimica (avrei divorato le pagine successive perdendo ore di sonno). Da leggere punto e basta.


La Panini mette insieme un bel volume cartonato stampato a meraviglia (sotto l'etichetta 100% HD), ma decide di ficcarci dentro 128 striminzite pagine ad un prezzo, 14 euro, che forse sarebbe stato opportuno tirare un po' giù (ma forse anche no), tenendo conto appunto che una novantina sono di fumetto e il resto di variant cover, schizzi, bio degli autori e postfazione di chiarimento firmata dal traduttore.

Ma non importa. Ora c'è solo da capire quando uscirà il secondo volume e, solo dopo aver letto il fumetto, cominciare ad interessarsi alla serie tv derivata che da un paio di mesi è entrata in produzione.

Bentornati al sud.

Hasui Kawase

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La Shin-Hanga (letteralmente "nuove stampe") è stato un movimento artistico giapponese nato nei primi mesi del XX° secolo che seppe rivitalizzare la tradizione Ukiyo-e (stampa artistica su carta, impressa con matrici di legno).
Uno dei più grandi esponenti della Shin-Hanga fu Hasui Kawase (1883 - 1957). Artista giapponese che sognava una carriera artistica sin da bambino, Kawase si presentò al maestro Kiyokata Kaburagi per apprendere la sua arte, ma questi lo rispedì al mittente consigliandogli invece di studiare lo stile di pittura occidentale. E Kawase la studiò per due anni, ma poi tornò da Kaburagi che viste le insistenze, lo accettò come studente. E meno male.

Poi in realtà sono successe un sacco di altre cose. Le influenze deiperiodi Edo e Meiji o quelle di artisti come Okada Saburosuke, Shinsui Itō e di altri i cui nomi devi leggere lentamente per non sbagliare. 
Purtroppo io sono poco ferrato nell'arte orientale, ma ti volevo segnalare Kawase perché, per quanto se ne possa dire, i suoi lavori paiono ancora oggi lontani anni e anni luce rispetto alla maggior parte delle cose che facevano i suoi colleghi in quella stessaepoca. Come lui, forse, solo HiroshiYoshida (di cui ti parlerò una delle prossime volte).
























Mad Men, le prime quattro stagioni (non la pizza), una via l'altra (come le ciliegie)

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Di Mad Men avevo visto un po' di episodi sparsi ai tempi della prima messa in onda. L'avevo fatto anche per "dovere", perché all'epoca in ufficio non si parlava d'altro. Chi faceva quel mestiere (non importava che tu fossi l'ultimo scalcagnato degli art director, un grafico, uncopy o un account), rielaborò la serie quasi come una rivalsa personale, sbandierando in faccia alla realtà (scioccamente, devo dire) un mondo che non esisteva nemmeno più.

Chi accese quella scintilla fu prima di tutto il protagonista, Don Draper, art director e poi socio dell'agenzia pubblicitaria di New York Sterling Cooper e guru della pubblicità anni '60.
Un figo impomatato, elegantemente vestito, pacato ma deciso, sempre con la sigaretta in bocca o un bicchiere pieno tra le mani, prodigo di lampi di genio ma con qualche scheletro di troppo nell'armadio.
Fascino, mistero e nostalgia, insomma, in un personaggio carismatico, macchiato da qualche decisione davvero discutibile e da una lunga serie di irrisolti che riguardano prima di tutto il suo rapporto con le donne, e che deve il proprio spessore all'interpretazione del bravissimo Jon Hamm.

Per chi ha vissuto gli ultimi dieci anni passeggiando per le fogne
e mangiando pizza come le tartarughe ninja, Don Draperè il tizio qui sopra.

Ora che ho rivisto come si deve le prime quattro stagioni mi appare lampante il motivo per il qualeMad Mensia diventata una delle serie culto dello scorso decennio (e oltre) e tra le più seguite e premiate degli ultimi anni. Di pubblicità si parla e anche tanto, riproponendo dinamiche lavorative ancora oggi attualissime, citando marchi noti e meno noti o i nomi delle grosse agenzie che erano già tali in quegli anni (McCann Erickson, Leo Burnett, DDB, Young & Rubicam, Ogilvy & Mather).

Ma c'è anche da tenere in considerazione che si parte agli inizi degli anni'60, dove in pubblicità tutto o quasi era concesso.
Fa ridere in tal senso la riunione con la dirigenza della Lucky Strike dove viene approvata con entusiasmo la head (che sarebbe lo "slogan") "E' tostato!". Anche se in inglese suona in un altro modo ("Lucky Strike! It's Toasted"), immagino che oggi l'autore di una roba così sciagurata possa venir preso a calci nel sedere fino a dargli la morte per sfinimento. E bada bene che ti sto dicendo che quella campagna è stata davvero una di quelle storiche dell'azienda in questione, tanto da divenire negli anni quasi un payoff sotto il loro nome (e tutto questo mentre i Dottori sembravano preferire le Camel).


In altri casi meglio studiati, viene fuori invece il vero genio creativo di Draper e il venditore che è in lui, come quando ragiona in silenzio sulla campagna storica della Volkswagen ("Think Small") o come nell'ultimo episodio della prima stagione dove tirerà fuori una presentazione da urlo e applausi per il primo proiettore di diapositive a ruota meccanica della Kodak.

Ma per quanto divertente, la forza di Mad Men non sta nel background pubblicitario (e mi rendo conto che per chi non ha mai sfiorato il settore, poco sarebbe cambiato se si fosse parlato di banchieri). Anche se nel corso delle prime stagioni qualcuno potrebbe infatti innamorarsi di questo mestiere, successivamente questo mondo ovattato si sgretola a pezzi riportandoti spesso con i piedi per terrae mostrandoti gli aspetti più cinici e disincantati di chi è abituato a ragionare a certi livelli.


In generale, quindi, la serie parla di tutt'altro: soldi, carriera, potere, amore, sesso, donne, tradimento, passione, guerra, fuga e famiglia.
Tanti vizi e pochissimi virtù, insomma, che tendono a raccontare con estro e disinvoltura i grandi cambiamenti della società americana. Queste prime quattro stagioni, per dire, lo fanno attraverso la "guerra" elettorale tra NixoneKennedy, la guerra fredda con la minaccia missilistica di cuba,i primi annidi subbuglio del femminismo americano con la donna alla ricerca della propria identità ed emancipazione o l'assassinio dello stesso Kennedy. Ma anche di persone che, deridendo i mali che provocavano davvero certi vizi, abusavano non poco di tabacco e alcool come se fossero tra le poche cose per cui valesse davvero la pena vivere (non passano 30 secondi senza che qualcuno si accenda una sigaretta o che beva un Canadian Club o un Old Fashioned).

Nella parte iniziale l'attenzione è tutta perDonald Francis Drapercon le numerosissime ombre che costellano la sua vita. Reduce della seconda guerra mondiale, poi venditore d'auto e di pellicce, Donè riuscito subito dopo a diventare una delle figure di spicco del mondo della pubblicità senza fare troppa gavetta. Oggi è un uomo affermato, marito di una ex modella e padre di due bambini.
Ma chi è davvero Draper? Perché la sua storia recente non sembra corrispondere con quella della sua adolescenza? Figlio di una giovane prostituta morta dandolo alla luce e cresciuto con un padre zoticone e una madre non sua che non l'ha mai accettato, qualcuno, oggi, sembra conoscerlo come una persona del tutto diversa dall'uomo forte e sicuro che appare tra le mura di casa sua o tra quelle del suo ufficio.


In ogni caso, la buona riuscita di Mad Men va cercataproprio nella cura nel trattare i personaggi e negli avvenimenti che colgono quasi sempre impreparato lo spettatore, dopo averlo fatto distendere con una sfera del quotidiano che, soldi e donne esclusi, potrebbe appartenerea chiunque: Mad Men, insomma, non è certo un semplice drama e il merito, a mio modo di vedere, è soprattutto diMatthew Weiner, creatore e produttore della serie che anni prima ha ricoperto gli stessi ruoli anche per la serie dei Soprano (e la cosa si nota parecchio, visto che le due serie sembrano condividere lo stesso trattamento delle parentesi affettive e sessuali, come pure lo sguardo cinico e disincatato sulla vita dei protagonisti).


Grande merito infine ai vari attori che sono riusciti a calarsi a meraviglia nei rispettivi ruoli. Di Jon Hammho già detto, ma tra gli altri ci sono da citare soprattutto la bravissima Elisabeth Moss che interpreta Peggy Olson,personaggio ricco di sfumature nel ruolo di segretaria e poi copy in continua ascesa, il bravo Vincent Kartheiser in quella dell'account Pete Campbell,la sensualeChristina Hendricks nel ruolo della segretaria tuttofare Joan Holloway e il caratterista John Slattery in quella di Roger Sterling, uno dei proprietari dell'agenzia. Ma di personaggi ce ne sono parecchi. La bella moglie di Don,Betty Draper(January Jones)il direttore finanziario Lane Pryce (Jared Harris), il responsabile delle vendite Ken Cosgrove (Aaron Staton), il copy Paul Kinsey (Michael Gladis), l'art director grafico Salvatore Romano (Bryan Batt)e decine di altri ancora.

Tanta roba davvero. Provare per credere.


P.S.: Se ti interessa, esiste un documentatissimo sito dedicato a questaserie, in rigorosa linguaitaliana: MadMenia.
P.P.S.: E non ho nemmeno sfiorato l'argomento musica. Qui sotto ti piazzo una bella playlist che ti facciacapire come i pezzi utilizzati nella serie riescano immediatamente a costruire una meravigliosa atmosfera d'epoca (a parte la prima che è la sigla iniziale firmata dal beatmaker RJD2).

 

Tre anni without James

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Il 19 giugno di tre anni fa se n'è andato James Gandolfini. Capisco che possa sembrare strano dirlo, ma mi è mancato parecchio. Mi è mancato non avere più sue notizie o andare a leggermi gli articoli che parlavano dei film ai quali stava lavorando. Più di quanto immaginavo.
Era un po' come lo zio buono ma sanguigno, quello meno bacchettone della famiglia che dava colore e sapore alle cene.

(Zio James...)





Tanti grandi ricordi in una sola cornice

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Se n'è andato anche Carlo Pedersoli. Purtroppo immaginavo che prima o poi sarebbe accaduto. Pensavo, quasi speravo, che uno come Bud potesse vivere per sempre. E' in parte è così. Aveva 86 anni e sembra che si sia spento serenamente accanto alla sua famiglia. Suo figlio ha detto che la sua ultima parola è stata "grazie".
Al di là della retorica, tutti si sono lanciati sui social in un ultimo saluto a questo gigante buono.
Un'amica, in particolare, ha ricordato quanto abbia faticato, da giovanotta, durante il suo erasmus in Germania, nel convincere i ragazzi tedeschi che Bud fosse un attore italiano.

Potrei stare qui a dirti quanto sia stato importante anche per me, quest'uomo, o quanto il fatto che fosse napoletano, e amasse Napoli nonostante tutto, lo avesse reso ancor più grande ai miei occhi.


Ho tanti ricordi che lo riguardano. Avevo non più di otto anni, all'epoca, e quando la tv passava uno qualsiasi dei suoi film, non c'era santo che tenesse. Lo sa bene mia madre, che se li è dovuti sorbire tutti (e più volte, mica una). Il ricordo più nitido è più che altro un'immagine: io seduto a gambe incrociate su un tappetino di pelliccia bianco a guardare in alto, verso la tv, mentre un sorriso mi si stampava in faccia ogni volta che cominciavano a volare mazzate, ogni volta che Terence (con la sua solita faccia da corna) faceva un dispettuccio a Bud e ogni volta che Bud socchiudeva ancor di più gli occhi e stringeva la bocca emettendo quel miagolio di impazienza. Da lì a breve sarebbero partiti pugni grossi come macigni, lo sapevi.

I due TrinitàAltrimenti ci arrabbiamo, Più forte ragazzi, Porgi l'altra guancia, Due Superpiedi quasi piatti, Pari e dispari, Miami Supercops, Non c'è due senza quattro, Nati con la camiciacome purei suoi film in solitaria come Lo chiamavano Bulldozer, Banana Joe, i vari Piedone, Bomber, Lo Sceriffo extra-terrestre..., Una ragione per vivere e una per moriree Il soldato di ventura, li ricordo tutti benissimo. Ma quello per cui ridevo di più, era indubbiamente Chi trova un amico trova un tesoro. Rimarranno per sempre scolpiti nella mia memoria diversi momenti di quel film, dalla partenza di Bud a bordo della sua barca ("Solo puffin ti darà forza e grinta a volontà"), alla sua fuga sulla spiaggia continuamente interrotta dalle sensuali fanciulle hawaiane che chiedevano un "becio", all'irascibile confronto con Terence Hill che scappa tra le palme ("Non c'è cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo"), alla meravigliosa e allegra Movin' Cruisin' interpretata dai The Fantastic Oceans che faceva da colonna sonora. Per non parlare del finalino di coda del film, sul quale rido come uno scemo ancora oggi. 


Cinque anni fa, quando dovevo arredare casa nuova, decisi di appendere al muro della cucina dei quadretti di piccole dimensioni con foto tratte da scene di film. Attori e attrici, insomma, tutti ritratti mentre mangiano. Tra queste ne spicca una in particolare presa da Io sto con gli ippopotami. Di fronte ad ogni ben di Dio da mangiare, Budsi prepara ad una grande battaglia a tavola con un gigantesco bavettone sulle spalle e con aria sorniona e indifferente fissaTerence Hillmentre sta per accoltellare un'aragosta.

Bud Spencer rimarrà vivo ancora per parecchio, dentro quella cornice.

Di strani Dottori, invincibili aironmenni, Principi Bernardi e gialli misteriosi

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DOCTOR STRANGE #1 
di J. Aaron, C. Bachalo

Potrei anche sbagliare, ma non ricordo di una testata interamente dedicata allo strambo Dottore dell'universo Marvel. La Panini fa cosa assai gradita (per me, almeno) e la distribuisce in edicola cercando di sfruttare l'hype che sta crescendo attorno al film (che in realtà arriverà al cinema solo ad ottobre). All'interno ci trovi la nuovissima serie Doctor Strange (All-new, All-tutto-il-resto), ideata e scritta da Jason Aaron (che mi ritrovo qui proprio dopo aver letto il bellissimo primo volume di Southern Bastards) che ci mette parecchio di suo con una curiosa storia a base di creature disgustose e di una misteriosa dimensione occulta che sembra voler presto straripare nella nostra senza farsi troppi problemi. La cosa davvero interessante è la questione legata ai "batteri psichici interdimensionali" che non permettono a Strange di vivere una vita normale. Per quanto Aaron affronti seriamente certi temi, però, riesce ad impreziosire il tutto con una buona dose di humor nero che rende la lettura parecchio divertente (a tanti, questaderiva ironicanon piace, a me si).
Chris Bachalo, dal canto suo, cerca di arruffianarsi chi ha tanto apprezzato le inquietanti e psichedeliche atmosfere di Ditko, ma crea anche un mondicino personalissimo a sua immagine e somiglianza.
E di mezzo ficcaci pure un breve intermezzo, tra i due episodi, disegnato da mister Kevin Nowlan (che è sempre un bel vedere).



Promozione a pieni voti, per ora. Avrei preferito un bimestrale con due episodi alla volta del Dottore, mentre invece mi tocca un mensile che già dal prossimo numero ospiterà anche la serie regolare di Scarlet Witch di James Robinson e Vanesa Del Rey che non so quanto possa piacermi (anche se ne ho sentito parlare molto bene). Vedremo.

INVINCIBLE IRON MAN #1-2
di B. M. Bendis, D. Marquez

Non so perché sia stato deciso di proporre proprio Iron Manal prezzo lancio di 1,99 euro, ma alla fin fine a qualcosa è servito. Probabilmente non l'avrei preso, infatti, perdendomi una tra le cose più "curiose" di questo ennesimo rilancio.
Invincible Iron Manè la nuova serie dedicata al crociato rosso e oro, orchestrata da Brian Michael Bendis e disegnata dal plastico David Marquez. Dentro c'è un Tony Stark più che mai motivato ad andare oltre i propri limiti e cosciente del fatto che dovrà ampiamente superarli se vorrà rimanere a galla in un mondo, il nostro, dove un giovane genio quindicenne è riuscito a superare le difese delle Stark Industries. Bendis spazza via anni e anni di discussioni sulle varie armature, facendo realizzare a Tony un modello unico che possa replicarle tutte, a seconda dell'esigenza, composto da micro parti intercambiabili (idea buonina, a mio modo di vedere).
Di mezzo ci passa un nuovissimo Victor Von Doom dal volto pulito e senza sfregi, profumato e ingiacchettato in una mise elegantissima (che non ho proprio idea da dove possa essere venuto fuori) che chiede a Tony di recuperare un oggetto sottrattogli dalla spietatacriminaleMadame Masque(che guarda caso è proprio una ex fiamma del playboy multimiliardario).


In sottofondo si muove anche una possibile nuova relazione sentimentale tra Stark e la bella Amara Perera, genio della biochimicaoriginaria di Ceylon.
A
me questi primi due numeri sono sembrati molto buoni. Bendis sta cercando davvero di svecchiare quello che dovrebbe essere il personaggio più moderno e tecnologico della Marvel e probabilmente ci sta riuscendo più dei suoi ultimissimi predecessori. Cercando inoltre di insaporire il tutto con una buona dose d'ironia (mi hanno fatto molto ridere il batti-cinque con il Dottor Strange o gli assurdi messaggi di Tonydestinati a lui stesso per non saltare gli appuntamenti importanti). 

I disegni di Marquez, inoltre, sono puliti e ordinati il giusto per un progetto del genere. Tenendo conto che almeno per il momento non sembrano previsti comprimari di sorta, credo che fin quando la serie terrà questi livelli, la seguirò con piacere.

BERNARD PRINCE #1-2
di Greg, Hermann

Dopo la saga di Black & Mortimer, sulla Collana Avventuraarriva Bernard Prince, classico della bédé nato nel 1966 per i testi di Greg e i disegni di un Hermann non certo al suo splendore, ma dallo stile già "pieno" e abbastanza caratterizzato. Sono previsti in tutto nove volumi (due episodi lunghi e uno corto per ogni albo) che dovrebbero raccogliere tutta la serie, compresi quelli disegnati da Dany e Aidans. Questa edizioneè arricchita dalle nuove cover che Hermannha disegnato e colorato ad hoc per la nuova ristampa in Francia a partire dal '99.
Bernard Prince ha sofferto in Italia di una pubblicazione frammentata e mai completa, apparendo a puntate suiClassici Audaciaa metà anni '60, sul Corriere dei Piccoli (e dei Ragazzi) alla fine dello stesso decennio epoi negli '80 su Grandi Eroi della Comic Arte sul Lanciostory dell'Eura.
Nelle sue avventure in giro per il mondo (sempre in viaggio a bordo del suo yacht, il Cormoran) l'ex agente dell'Interpol Bernard Princesi avvale della collaborazione del burbero marinaio sbevazzone Barney Jordan (che deve molto, immagino, al più noto capitano Haddock di Tintin) e il giovanissimo mozzo indiano Djinn.
Nonostante l'impianto molto classico della serie, le storie sono semplici ma squisitamente esotiche e improntate alla purissima avventura.


Nel primo albo sono raccolte le prime due storie, Il Generale Satan (divisa in due parti, la cui prima si intitolaI Pirati di Lokanga) e Tempesta su Coronado, dove prima di tutto facciamo la conoscenza dei protagonisti che formeranno il terzetto noto a tutti e della nemesi di Bernard, il temibile Wang Ho (il GeneraleSatan, appunto), destinato a tornare spesso nelle sue avventure. Lo ritroviamo infatti già nel secondo albo, nella bella storia La frontiera dell’Inferno, dove Bernard e soci saranno ingiustamente accusati di furto e omicidio e poi costretti ad affrontare una fuga disperata attraverso le paludi, in una spietata caccia all'uomo architettata proprio da Wang Ho.


Chiudono il secondo volume la divertente Avventura a Manhattan (una delle poche che avevo già letto), dove il Cormoran approda per la prima volta negli Stati Uniti, e una delle storie brevi, in questo caso La Passeggera, serializzate originariamente in appendice ai volumi originali per aumentarne la foliazione.
Insomma, si tratta di storie dal fascino molto particolare che semplicemente è un piacere leggere. Non saprei come spiegarlo meglio.

MARTIN MYSTéRE #345
di S. Badino, G. Alessandrini

A prescindere dalla storia devo ammettere che, per quanto mi riguarda, stringere tra le mani 160 pagine disegnate da Giancarlo Alessandriniè sempre una festa. Mettici poi che Sergio Badinomette a segno una delle storie più interessanti e solide dell'anno, tirando in ballo nientemeno che la note regina del giallo, miss Agatha Christie. 
Mentre prepara una puntata della sua trasmissione dedicata alla Christie, infatti, Martin Mystère scopre un suo presunto romanzo inedito ambientato in Egitto e scritto negli anni '10 del secolo scorso, ben prima che divenisse famosa, insomma. Nel manoscritto, inoltre, sono descritti luoghi scoperti soltanto anni dopo, come la Caverna dei Nuotatorinel Gilf Kebir, catena montuosa sul confine tra Egitto e Libia. Chiedendosi come fosse possibile che la scrittrice conoscesse già tali posti, il detective dell'impossibile parte per la capitale della Repubblica Araba sulle tracce di un popolo dimenticato che nasconde la chiave di uno straordinario segreto.
Il tutto costellato dalle solite, frivole "ipotesi" sulla misteriosa scomparsa della Christie, durata qualche giorno, e del successivo e repentino divorzio.


Bello, niente da dire. Ci sarebbe solo dasottolineare ancora una volta quanto Alessandrini riesca a sguazzare nelle ambientazioni d'epoca (aveva già dato conferma della cosa nei Martin Mystére ambientati negli anni '30). 
Unico neo (un vero peccato, se devo dire), sta nell'aver voluto riprendere in copertina la grafica storica dei Gialli Mondadori ma con un "misterioso" blu di fondo (mi sfugge il perché). Fosse stata gialla, sarebbe stato un piccolo, simpatico capolavoro grafico.

Zdzisław Beksiński

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Ora. E' un dato di fatto che quello di Zdzisław Beksiński, pittore e grafico polacco nato a Sanok nel 1929 e morto a Varsavia nel 2005, è un nome ingiustamente sconosciuto ai più.
Un talento visionario del genere, al quale lo stesso Hans Ruedi Giger (molto più noto di lui, appunto) deve probabilmente parecchio, sembra prendere forza da un approccio tetro, macabro e surreale verso certi temi.
E diciamo pure che viste le cose brutte di cui è stato testimone nel corso degli anni, aveva più di un motivo per vederla in un certo modo.

Non voglio rendere triste la tua giornata, ma ti elenco giusto tre o quattro punti presi direttamente da wikipedia: Beksiński nasce da una famiglia di imprenditori, studia economia e si diploma durante l'occupazione tedesca e poi, per volere del padre, passa all'università diarchitettura a Cracovia, diventando dopo poco supervisore di cantieri edili, lavoro per il quale prova una profonda avversione. Si sposa nel 1951 e sette anni dopo sua moglie Zofia dà alla luce il loro unico figlio, Tomasz. 
Nel 1971 ha un terribile incidente stradale, rimanendo bloccato con la sua auto all’interno di un passaggio a livello incustodito. Se la caverà con tre settimane di coma e parecchi mesi di convalescenza. E da quel momento, la sua arte cambia in modo radicale.


In vecchiaia, purtroppo, comincia per lui unperiodo degno del più terribile dei film horror. Nel 1998 muore sua moglie mentre l'anno successivo, nel giorno della vigilia di Natale, suo figlio Tomasz, noto presentatore radiofonico e giornalista musicale, si toglie la vita. Infine, dopo anni di depressione dovuti alla scomparsa della sua famiglia, il 22 febbraio del 2005 Beksiński viene accoltellato ben diciannove volte dal figlio del suo maggiordomo a causa di un prestito di cento dollari che l’artista aveva negato al ragazzo.

Nonostante questo, o forse anche per questi motivi, l'inquietante e gotica arte di Beksińskil'ha reso noto come uno dei maggiori artisti polacchi della seconda metà del ‘900. In ogni caso va detto che anche se la vita è stata poco delicata, con lui, dalle poche foto che girano in reteBeksiński tutto sembrava, tranne un uomo triste o turbato.



















The best things in life are free

Capitan Jack

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Su questo Texone ho sentito e letto ogni tipo di critica o di elogio. Per lo più, dal quadro generale, sembrano venir fuori una buona storia e degli ottimi disegni. Qualcuno lo ha descritto come uno dei migliori speciali giganti dedicati al ranger, qualcun altro si è lamentato dei nasi aquilini tanto cari a Enrique Breccia o la sua tendenza (propria del suo stile) a caratterizzare i personaggi esasperandone appunto peculiarità o difetti somatici.

Personalmente, questa volta mi sento di andare contro corrente attirando le ire di chi questo Texone l'ha apprezzato in tutto e per tutto.
Non mi ha detto granché il soggetto di Tito Faraci (il fatto che abbia dimenticato quasi tutto cinque minuti dopo aver letto l'albo, dovrebbe dirla lunga) che prende spunto da fatti storici realmente accaduti e dai suoi protagonisti come Capitan Jack (Kintpuash, in originale), capo indiano che guidò la tribù Modoc nella celebre guerra di Lava Beds contro le truppe militari americane.
Nell'albo, tutto sembra ridursiad un inseguimento a distanza e ad un lungo scontro a fuoco che per quanto squisitamente meraviglioso dal punto di vista scenografico, appare in parte confuso, limitandosi ad una serie di botta e risposta a suon di fucilate, ziiing, bang bang, punti esclamativi e poco altro.


L'argomento, che avrebbe meritato di sicuro più spazio, qui è marginale alla vicenda principale (Tex e Carson seguono in realtà le tracce di Hooker Jim, braccio destro di Capitan Jack, reo di aver sterminato la famiglia di un vecchio amico ranger) e non viene trovato il tempo di essere trattato con la dovuta profondità (non come è stato fatto, tanto per dire, da Gino D'Antonio e Renato Polese in meno di cento pagine nel meraviglioso numero 54 di Storia del West intitolato "Sangue di Guerriero").

Incoerente inoltre, a mio modo di vedere, l'atteggiamento di Tex che lascia scappare via Capitan Jack, addirittura con un sorriso d'intesa, sapendo che il capo indiano aveva appena trucidato a sangue freddo alcuni importanti esponenti dell'esercito americano (tra cui il generale Edward Canby) che avevano accettato di incontrarlo per prendere accordi.


Sui disegni di Enrique Breccia che dire? Visto nel complesso, il suo lavoro è davvero monumentale. A me le sue esasperazioni stilistiche e i suoi nasi aquilini non hanno mai creato problemi. Così come i suoi profili molto spesso simili o le espressioni sempre digrignanti dipinte sui volti dei "cattivi".
Scenograficamente è senza dubbio un maestro, così come lo è nell'equilibrio dei bianchi e neri, sapientemente caratterizzati da un superbo tratteggio, e nella sua esemplare perizia nei particolari (che forse non arriva ai picchi toccati suAlvar Mayor, ma nemmeno è più semplificata come in Les Sentinelles).
Tuttavia non sono riuscito a scrollarmi di dosso la sensazione, da un certo punto in avanti, di "leggere" delle vignette molto simili tra loro, scandite da uno storytelling che forse non va mai davvero oltre.


Insomma, per quanto faccia quasi spavento aprire a caso questo volume e godere di una qualsiasi della tavole tratteggiate da Breccia(come quella qui sopra), durante la lettura non ho mai creduto che in generale potesse trattarsi di uno dei migliori cinqueTexoni sfornati fino ad oggi.

O forse sono semplicemente indispettito da un caldo che ha faticato ad arrivare ma che non ci ha messo poi molto a farmi rimpiangere nuvoloni e temporali improvvisi. Vai a capire.

A tarda notte...

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Domenica sera dovevo andare a letto presto e invece, alle prese con l'ultimo zapping isterico all'una di notte prima di spegnere definitivamente la tv, sono incappato su Rai5 mentre stava andando in onda una puntata diJazz Icons dedicata a Dave Brubeck.Un paio di meravigliose performance live registrate nel 1964 e nel 1966 tra Belgio e Germania.

Con la testa addolcita dal sonno, l'esibizione si è trasformata in un'esperienza quasi mistica. Starei per ore a guardare Dave che picchietta nervosamente sul piano, ad ascoltare il suono vellutato del sax di Paul Desmond o ancora Eugene Wright con quell'aria sorniona e sorridente mentre "canta" le note che produce sul contrabbasso. Per non parlare dell'ipnoticoJoe Morello che con quella sua faccetta da ragioniere è stato, secondo chi scrive, uno dei migliori batteristi dell'epoca (e purtroppo ancora oggi un filino sottovalutato, dalla critica, rispetto ad altri suoi colleghi più noti, ma osannato da chi suona il suo stesso strumento).

Che delizia, per qualche attimo, addormentarsi sulle note finali senza troppi pensieri, per poi svegliarsi alle due e mezzo, conscio del fatto che sarei dovuto andare a letto per rialzarmi solo quattro ore più tardi. Ma ne è valsa la pena. Anche solo per guardare tutti i membri del quartetto che ridono sempre, di continuo (come nella foto sopra), come se in quel momento non esistesse nulla al di fuori della musica.

Certe cose, proprio...

Legend

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Davvero non si capisce perché film come questi passino in sordina, a favore delle roboanti e vuote produzioni hollywoodiane. Nemmeno ricordavo fosse passato al cinema, l'anno scorso.

Legendè un film scritto e diretto daBrian Helgeland (sceneggiatore e/o regista, tra le altre, di pellicole quali Payback - La Rivincita di Porter, L. A. Confidential, Mystic River, Man on Fire eThe Bourne Supremacy), tratto dal libro del 1972 The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins di John Pearson.
Come da titolo, si narrano qui le gesta dei gemelli Kray, Reginald e Ronald,i leader della più potente organizzazione criminale dell'East End di Londra negli anni '50 e '60. Apprezzati soprattutto per la loro gestione di svariati locali notturni, frequentati anche da parlamentari, uomini d’affari e note personalità dello spettacolo (si narra del loro rapporto con Frank Sinatra che si esibì più di una volta da quelle parti), i due fratelli divennero parecchio celebri, all'epoca, tanto da essere fotografati da David Baileye intervistati dalla BBC (se ti interessa la loro storia, Il Post ne parla QUI).


Il problema è che mentre Reggie cercava di costruire un impero cercando di lasciare meno cadaveri possibile lungo la strada, Ronnie, a cui venne poi diagnosticata una schizofrenia paranoide, era assolutamente imprevedibile e più volte compromise gli "affari"di famiglia con alcuni gesti sconsiderati e improvvisi colpi di testa.

Il bello di questo film, in ogni caso, è che ad interpretare il doppio ruolo dei gemelli Krayè un solo attore, Tom Hardy, che per l'occasione sforna un'altra ottima prova mettendo in mostra tutta la sua ecletticità (che tra Bronson e The Dark Knight Rises, sta diventando un vero esperto nella definizione di personaggi sociopatici dentro e fuori le mura di una prigione).
Una solida performance dell'attore, insomma, che riesce a mettere a segno l'ennesima, riuscita interpretazione.

Il resto del cast all'opera vede anche la giovane Emily Browning nelle vesti della moglie di Reggie, un incanutito Christopher Ecclestone in quelle di un ostinato detective di Scotland Yard, il grande Chazz Palminteriin quelle di un mafioso italoamericano in visita a Londra e l'irriconoscibile Paul Bettanynel ruolo (misteriosamente non accreditato, seppur breve) del leader della gang rivale a quella dei Kray.



Legend in realtà non riesce a raccontare poi troppo dell'ascesa al potere dei gemelli, riprendendo tutta la storia dall'insolito punto di vista della moglie di Reggie. Decisione forse discutibile in quanto poco, se non pochissimo, emerge dell'imponente background inglese di quegli anni o degli effettivi atti criminosi dei protagonisti della vicenda, se non in un paio di scene appena.

Tutto è lasciato insomma allo sguardo magnetico di Tom Hardy che con la sua sola elegante presenza, che per questa parte ha ricevuto una candidatura ai premi Oscar come miglior attore protagonista,riesce a riempire le pagine di unintero script qui e lì macchiato da qualche momento piatto (e non aiuta il fatto che la pellicola vada al di là delle due ore).

Da vedere anche solo per questo, insomma.

P.S.: Un "più" sul registro va anche ad una meravigliosa colonna sonora che, tra le altre, raccoglie le performance di Booker T. & M.G.'s, The Meters, la Starsound Orchestra, Santo & Johnny e Martha Reeves & The Vandellas.
Un "meno"grosso come una casa va invece al doppiaggio italiano che per l'ennesima volta (la tredicesima, addirittura) affida la voce di Hardy ad un nuovo doppiatore (Giorgio Borghetti, in questo caso, che non sembra troppo a suo agio nella parte).





Mad Men, le stagioni dalla cinque alla sette e fine

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Circa un mesetto fa, qui, ti ho parlato di come le prime quattro stagioni di Mad Men mi avessero messo più o meno di buon umore. Mentre scrivevo, in realtà, ero già a metà della quinta e oggi, dopo una run a tappe forzate, ho visto tutto ciò che  rimaneva da vedere.

In giro avevo spesso letto di come l'ultima stagione, la settima, si fosse arrogata il diritto di essere una delle migliori chiusure nel campo delle serie tv. E la cosa, in effetti, è abbastanza probabile.
C'è però da fare una premessa. La quinta e la sesta stagione hanno di fatto offuscato quanto di buono avevo visto fino a quel momento. Si è trattato di un paio di cicli di episodi noiosi, morbosi e tirati per le lunghe. E' stata messa a dura prova anche la mia proverbiale ostilità per l'incoerenza, dove tutta una serie di personaggi sembravano aver dimenticato la propria crescita individuale e le proprie esperienze, per esibirsi in comportamenti al limite del realistico, impegnati com'eranoin dialoghi assurdi e spesso privi di senso, scene senza mordente, quando non addirittura futili da un qualsiasi punto di vista, in un tragicomico quotidiano che sembrava non poter essere diverso da una contrita telenovela argentina.


Ovviamente sto anche esagerando (sai che mi piace farlo). Di cose buone ce ne sono state, ma per la maggior parte del tempo ha prevalso in effetti la noia accompagnata dalla silenziosa, mesta speranza che gli autori prendessero finalmente una direzione. La lezioncina profumata e leziosa da buon autore televisivo viene sciorinata ad ogni episodio, per carità, ma la trama principale subisce gravi flessioni mostrando dei protagonisti distrutti e consumati dalla vita senza un motivo apparente (a volte la cosa è voluta in modo damettere sotto le luci qualche deplorevole carattere, ma a volte no).
In particolare la storia di Don Draper, quella dalla sua adolescenza alla giovinezza, che pure qui è il motore principale di tutta la serie, si defila dopo qualche sporadica scenetta che vuole raccontarci una vita drammatica meno drammatica di quanto si prefigge di farci credere.


Nonostante questo, e granzie a Dio, è poi arrivata la settima e ultima stagione dove si è tolto il vino dal decanter e riempito il bicchiere. Le cose hanno cominciato a respirare verso una direzione ben precisa e i personaggi principali sembravano aver subodorato la strada lastricata che li avrebbe portati tutti, eccitati e nervosi, verso l'inevitabile finale.
Per inciso, non sono mancati anche qui dei momenti di noia, ma siamo ben lontani dalle precedenti due stagioni.

Il finalissimo di coda (in cui un ruolo tutt'altro che marginale lo gioca la McCann Erickson, agenzia di pubblicità fondata nel 1902 e ancora oggi esistente) è in effetti una lezione di grande televisione, anche se diversi nodi, voluto o meno che sia stato, non sono venuti al pettine.
Gli ultimissimi secondi dell'ultimo episodio, in particolare, piacerebbero a chiunque. A chi ha avuto a che fare con il mondo dellapubblicità e affini, ha addirittura lasciato una sensazione di vuoto mista a nostalgia. Perché accade che si accende una scintilla come se ne accendono una o due nell'arco di un'intera vita. Con tanto di sorpresona finale che un po' di brividi li mette. Ma che ci fa anche capire che poco o nulla cambierà. Perché per quanto il buonismo popolare voglia farci credere il contratio, le persone NON cambiano. Al limite evolvono (in meglio o in peggio, sta solo a loro deciderlo).


Alla fin fine si, mi mancheràDon Draper ma anche Peggy Olson, Roger Sterling, Joan Holloway (che pure a sprazziha rappresentato, insieme alla seconda moglie di Don, il personaggio più bersagliato in quanto ad incoerenza) e anche qualcun altro. Forse addirittura Pete Campbell, guarda.

Ma più di tutti mi mancherà Stan Rizzo, art grafico della Sterling Cooper, personaggio secondario ma meglio strutturato di tanti altri, perché è divertente e cinico, ma nei limiti consentiti dal buon senso. Silenzioso, taciturno e un po' musone, Stanè un tipo riservato solo all'apparenza, illuminatoda improvvise scintille guascone e tanta voglia di sfottere. 
Mi ha sempre fatto ridere, anche quando agli altri diceva poco. Fino a scoprire (segretamente suggeritomi da mia moglie) che probabilmente mi assomiglia. E non poco. Forse parecchio.

Forse anche fisicamente c'è qualche accenno di somiglianza. Molto alla lontana.

Alla fine di questo viaggio, per quanto ci siano stati gli inevitabili alti e bassi (forse con due o tre stagioni in meno, la serie ci avrebbe guadagnato), la sensazione è quella di aver fatto parte di un viaggio interessante che varrà la pena di ricordarecon una punta di nostalgia. E gli anni '60 e '70 fanno parecchio, in questo senso. Anche se, devo ammetterlo, mi sarebbe piaciuto che le ambientazioni fossero state congelate ai primissimi episodi, alla fine di quei meravigliosi (per certi versi e non per altri) anni'50.

Secondo wikipedia, lo scorso primo giugnoDon Draper avrebbe compiuto la bellezza di novant'anni tondi tondi. E io mi sono sorpreso a chiedermiche cosa starebbe facendo oggi, se fosse ancora vivo.








Up & Up

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I Coldplay non mi piacciono più da parecchio tempo. Ricordo con molta nostalgia i loro primi due album, Parachutes e A Rush of Blood to the Head, perché quel tipo di musica arrivònel momento giusto, in un contesto storico musicale bisognoso di novità (anche se all'epoca la Dave Matthews Band aveva già esplorato quei temi in lungo e in largo).
Dal terzo album cominciai a trovarli estremamente ripetitivi. E da allora non li ho più seguiti. Spesso anzi, se li beccavo in radio cambiavo stazione senza nessun interesse.

Ultimamente mi sono anzi chiesto come sia stato possibile che una band che sia partita da un pezzo come Trouble sia arrivata a Hymn for the Weekend, che è si nota in tutto il globo(è quella dove strepitano "oooàààà oooàààà"), ma che personalmente reputo un pezzo davvero svilente per chi, come loro, ha iniziato cercando di tracciare uno stiloso percorso musicale.

L'altro giorno, però, svaccato a quattro di bastoni davanti alla tv, mi è capitato di vedereper la prima volta il video di Up & Up, pezzo aggraziatino e simpatico, sempre nelle loro solite corde, ma con echi e rimandi alle loro primissime sonorità.Il pezzo non è male, insomma, ma è l'atmosfera del video ad avermi colpito davvero parecchio. Sono rimasto a guardare ammutolito per tutti e quattro i minuti, facendomi trasportare dal senso di nostalgia che sprigiona potente. Eccotelo qui.


Klon

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Per il terzo speciale a colori della collana Le Storie, due parole vale proprio la pena spenderle. Klon, questo il titolo, è una storia di fantascienza che vede come autore unico il grande Corrado Mastantuono, che solo soletto se lo è scritto, disegnato e colorato.

Che peccato, viene subito da pensare, che un lavorone del genere (chissà tra tutte le fasi di realizzazione quanto ci ha lavorato effettivamente Mastantuono) sia destinato a finire il proprio cerchio vitale in un mesetto o poco più.
Lo impone ovviamente la ferrea legge dell'edicola, ok, però è davvero difficile non pensare a quanto lavoro ci sia voluto.
Magari in Francia avrebbe goduto di maggiore attenzione (e non parlo di numeri), meritandosi forse anche una cover firmata dal suo stesso autore. Non me ne voglia il grande Maestro Aldo Di Gennaro, ma non ho mai capito questa cosa di dover far firmare tutte le cover ad un unico copertinista, quando per sua stessa natura la collanaLe Storie ospita appunto autori diversi per ogni numero (in realtà un motivo c'è e ovviamente lo conosci anche tu: si fa per dare un senso di continuità alla collana, in modo da appagare il collezionista testa di legname che proprio non riesce ad uscire da certi meccanismi).


Poi magari sbaglio io e la Bonelli, che grazie a Dio ormai è avvezza a certi ragionamenti, lo ristamperà in un bel cartonato destinato a fumetterie e librerie di varia. E tutto questo per dire che Klon merita di essere letto per l'impegno profuso, insomma, ma non solo per quello.

Ambientata a Roma in un prossimo futuro freddo e tecnocratico, la storia narra le vicende di Rocco Basile, programmatore interfacciale che, come tanti altri, ha problemi a stare in riga e tenere a bada i primi segni di una schizofrenia incipiente. La vita di Rocco cambia repentinamente quando diventa testimone di un sanguinoso omicidio dal quale scampa per miracolo. Da qui si ritroverà al centro di una grossa e pericolosa cospirazione globale in cui è in gioco il futuro di milioni di persone.


Sui disegni è superfluo discutere. Mastantuonoè un autore, un Maestro, di caratura internazionale. Sui colori, forse, avrebbe giovato un trattamento più accurato e ricco (per quanto piatto, però, il lavoro sulla scelta delle palette è molto buono).
Insomma, se in casa hai degli scaffali su cui ci tieni tanti bei fumetti, Klon dovrebbe essere lì da qualche parte.



Due alla vota, come se uno non bastasse

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Tra ieri e oggi il mondo del fumetto piange la dipartita di due grandi Maestri.


Il primo è Jack Davis, immenso talento grafico noto soprattutto per i suoi lavori su MAD Magazine e sulle serie della EC Comics (Tales from the Crypt su tutte). Se non sia chi sia, inutile che ti stia a citare pezzi della sua sterminata carriera o quanto sia diventato negli anni un punto di riferimento per tanti cartoonist. Basta farti un giro su google immagini e hai risolto.
Fortunatamente per lui, si è spento seneramente (sembra) all'eta di 92 anni.


Il secondo è il grandissimo Richard Thompson che, notizie di poche ore fa rilasciate direttamente dal suo blog, sembra se ne sia dovuto andare all'età di 58 anni per complicazioni legate al Morbo di Parkinson che gli fu diagnosticato già nel 2009. Oltre ad essere un fine illustratore per il New Yorker e per il National Geographic, Thompson era noto soprattutto per la sua bellissima striscia, Cul de Sac, fino a qualche tempo fa periodicamente pubblicata anche in italia sulle pagine di Linus.

Tanta pace a loro.

Trailerùme

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L'ultima San Diego Comic-Con deve essere stata tutta un tripudio di miccette e colori per gli aficionados delle nuvolette parlanti, visto che proprio lì hanno trasmesso in anteprima un pacco di trailer nuovi di zecca dedicati, ovviamente, alle produzioni legate al mondo dei comics.

Da una parte i due più recenti e prossimi cinefumettoni DC Comics/Warner Bros: il primo trailer ufficiale dellaJustice League, con un Bruce Wayne davvero simpa (che dio ce ne scampi) che se ne va in giro a reclutare gli amichetti di sbronza (l'unica cosa degna di nota sembra la natura selvaggia di Aquaman) e il primo di Wonder Woman che in quanto ad ambientazioni e scene d'azione potrebbe anche risultare interessante (ma non ci metterei la mano sul fuoco).




Dall'altra, le solite super produzioni Marvel, questa volta con un briciolo di ironia in meno (o almeno sembra). Parliamo del secondo trailer del Doctor Strange (io incrocio le dita perché dalle scene che si vedono qui, a parte quelle "ispirate"adInception, sembra ci abbiano lavorato parecchio di fantasia) e di quelli delle serie tv targateNetflix, The Defenders (poco più di un teaser), Luke Cage (anche qui sembra esserci qualcosina di interessante) e Iron Fist (troppa poca roba per farsi anche solo un'opinione iniziale).




E di tutta questa roba, poco o nulla mi interessa (a parte Strange). Le news che sto seguendo con più interesse sono quelle legate alla serie tv della FX Productions dedicata a Legion (alias David Haller, figlio del professor Xavierafflitto da qualche "disturbo" mentale), tratta da un bel ciclo a fumetti di qualche anno fa (X-Men: Legacy, scritto da Simon Spurrier e disegnato da Tan Eng Huat, di cui ti avevo parlato brevementequi).

Perché mi interessa? Per un terzetto di motivi buoni.
Motivo buono numero 1: guarda il trailer e dimmi se non sembra la roba più succulentadi questa intera infornata (a me sembra meraviglioso).
Motivo buono numero 2: non devono esserci per forza (e infatti NON ci sono) persone che indossano mutandoni e mantelli.
Motivo buono numero 3: sceneggiatore e produttore della serie è Noah Hawley, il genio dietro la serie tv Fargo. E tanto dovrebbe bastare.


Western Stories

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Una collana regolare di romanzi wester in edicola non si vedeva da parecchio (a parte il tentativo della Cosmo di qualche anno fa, durato appena una manciata di uscite).Mi sembra evidente che tra cinema, fumetti, televisione e letteratura, il genere stia vivendo, da qualche anno, una nuova giovinezza (ma senza esagerare). La Gazzetta quindi ne approfitta e da domani, 2 agosto, piazza in edicola questo nuovo collaterale, Western Stories:
"Una collezione di storie indimenticabili, dedicata a tutti gli amanti del mitico e selvaggio west. Grandi romanzi, per immergersi in un’atmosfera unica, tra indiani, pionieri, sceriffi e sparatorie all’ultimo sangue. Pubblicazioni uniche e introvabili, capolavori della letteratura western degli anni ’70, rivedranno la luce, per catapultare vecchi e nuovi appassionati nella frontiera più ostile e selvaggia. Carica la tua rivoltella e preparati al duello di Western Stories".

La collana è composta da 30 volumi (ognuno dei quali costerà 5,90 euro) e tra le prime dieci uscite ci trovi quegli scrittori che hanno elevato il western a genere letterario nelle decadi passate, da Zane Gray a Ernest Haycox, da Louis L'Amour a Gordon D. Shirreffs, da Lewis Byford Patten a Hunter Ingram.

L'esperimento, insomma, mi sembra interessante. Anche se personalmente non gradisco il richiamo forzato del primo volume (che urla al lettore di Tex) e quel tipo di illustrazioni un po' sempliciotte e dai colori fosforescenti (ed è un peccato, perché la grafica invece è abbastanza adeguata).

Se ti interessa, qui trovi il sito dedicato alla collana con alcune informazioni (ma sempre meno di quante te ne ho date io).

Letturelàx

Di tutto un po', nel mentre di questa calda estate che non accenna a terminare

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Per tornare, sono tornato. E già da parecchio. Ma non è che abbia tutta questa voglia di dire, fare, baciare. Ho passato una parentesi in meditazione (con la testa sempre altrove, proiettata al domani), costellata da qualche momento di lettura e di visione.
Sto teneramente riflettendo anche sull'esistenza stessa di questo blog. Non tanto perché ormai è un fuggi fuggi da questo modo di "fare" il web, quanto perché ormai sempre più impegni mi tengono lontano dalla rete.
Probabilmente qualche post apparirà ancora, ma di sicuro con una periodicità più dilatata.Probabilmente, ad un certo punto, smetterò del tutto perché "così è, se vi pare". 

Intanto, però, se solo avessi voglia potrei dirti che in questa pausa estiva, dei libri visti nella foto del post precedente, ho letto quasi tutto.


Mi sono gustato Destinazione Inferno di Lee Child, il secondo capitolo delle gesta di Jack Reacher, forse un pelo meno coinvolgente del primo libro, ma comunque interessante in quanto a spunti e tematiche. E92 Giorni di Larry Brown,un piccolo grande gioiello, secondo molti, ma che io ho apprezzato poco, cavalcando, come fa, certi temi tanto cari a Bukowski o John Fante. Di sicuro sarebbe interessante capire quanto della propria vita Brown abbia riversato in questo scritto.
Sto finendo di leggere anche Sul Mare. Racconti di sole e di vento, unaraccolta messa a punto dalla torinese Lindau, con chicche davvero degne di nota come il racconto L'uomo che amava le isole di David Herbert Lawrence e altre assolutamente trascurabili come Il Cane, breve scritto firmato da Grazia Deledda che col mare ci appizza davvero poco. E infine, il Meridiano di Sangue di Cormac McCarthy, epico romanzo western che se da un lato ha il merito di immergerti in certi scenari come poche altre cose scritte, dall'altro risulta molto più lento e appassionante di altre cose dello scrittore cresciuto in Tennessee.

Se avessi voglia, poi, ti direi che anche di fumetti ho letto qualcosa.


Lo Speciale Martin Mystére (il 33°) intitolato Troppi Super-Eroi!è il terzo ambientato nel mondo alternativo degli anni '30 (Castelli e Alessandrini sono sempre una sicurezza e se vicino ci metti pure le 50 sagaci pagine che festeggiano i trent'anni del world wide web, a conti fatti questo speciale annuale è ormai uno degli appuntamenti estivi a fumetti più interessanti in circolazione). 
E il Nathan Never Magazine 2016, come l'anno scorso, ristampa storie lunghe e brevi dei bei tempi che furono. Avevo letto già tutto, ma è stato bello rivivere certe sensazione legate ai primi anni '90. Il Numero 100, tutto a colori, è stato propinato a chi fa rientrare le più belle storie dell'Agente Alfa solo nella prima ventina di uscite. Ma la sorpresa è stata il divertente Guerra alla Yakuza,breve storia che fu pubblicatain un fascicoletto allegato al videogame Nathan Never - The Arcade Game, distribuito dalla Genias nel 1992 e che fu una delle rare cose dedicate al personaggio che, all'epoca, non riuscii a recuperare. 


Il terzetto di albi di Nathan Never#301/303raccoglie invece la fine della saga di Omega, opera scritta da Michele Serra (che annuncia il suo abbandono definitivo alle storie della serie) e disegnata da Sergio Giardo. Sarà che mi mancano dei pezzi recenti della vicenda o il fatto che non ho mai ritenuto Omega un cattivo troppo spaventoso, ma la storia, per quanto godibile e costellata da spunti interessanti, non mi ha particolarmente convinto. Va detto però che ha generato davvero tante chiacchiere e ipotesi sulla reale o fittizia morte di molti protagonisti e molti appassionati l'hanno definita come la Crisis on Infinite Earthin casa Bonelli (qualcuno addirittura ipotizza che Nathan NeverAnno Zero, attualmente in corso di pubblicazione, racconti la realtà di questo Nathan Neveralternativo).
Ho sempre visto il mondo di Nathan Neverpiù simile a quello di Blade Runner che non a quello dei mega eventiMarvel o DC Comics. Quindi mi siedo e aspetto di capire se la cosa possa davvero avere un'evoluzione.


Gli ultimi tre albi del ranger e compagnia (Tex #668/670) presentano invece una storia unica, scritta da Boselli, che ci porta nel conflitto tra la cofederazione Kiowas sul piede di guerra, guidata daLone Wolf e dallo sciamano Maman-Ti, e le truppe del celebre colonnello Ranald Mackenzie, meglio noto con il nomignolo"Mano cattiva".
La storia ha un respiro ampio ed è ben strutturata, come spesso accade quando a occuparsi dei testi è Boselli. Probabilmente, però, il tutto sarebbe entrato comodo anche in soli due albi (questa volta ci sono veramente troppe, troppe, troppe parole. Anche meno, Mauro).
Da elogiare il lavoro del bravissimoStefano Biglia, qui alla sua prima prova lunga dopo l'esordio con la bella storia breve comparsa sul Color Tex che omaggiava l'Hotel Azzurro di Stephen Crane.


Ammetto che conoscevo poco o nulla di Luc Orient (pubblicato sulla "Collana Avventura" della Gazzetta dopo la fine di Bernard Prince). In casi come questo mi sono sempre affidato ai pareri degli appassionati della bédé molto più esperti di me che da sempre tessono le lodi della serie scritta da Greg e disegnata da Eddy Paapedefinendola uno dei grandi classici di fantascienza del fumetto franco belga.
Invece devo dire che dopo aver letto i primi tre albi (che raccolgono per intero il ciclo di Terango), nonostante le buone intenzioni e una lettura comunque scorrevole, la serie non sembra andare oltre i cliché dell'epoca, con tempi narrativi davvero troppo dilatati.
Lo spirito dei classici c'è tutto, ma già nellacostruzione dei personaggi si sfiora candidamente il plagio (il terzetto di scienziati composto dal professor Hugo Kala, Luc Orient e Lora Hansen, ricordano davvero troppo da vicino il dottor Zarkov, Flash Gordon e la bella Dale Arden, per tacere dell'assonanza tra i nomi dei pianeti protagonisti dei rispettivi primi cicli, "Mongo" e "Terango"). Più che di una vera e propria delusione, in realtà, sto parlando di un bel po' di noia. Curioso ora di leggere anche il secondo ciclo, anche se poco fiducioso.

Infine, sempre avendo voglia, avrei potuto raccontarti di come, approfittando della momentanea assenza di moglie e figlio, mi sia rimesso in carreggiata con il genere action cinematografico, vedendo film vecchi e nuovi che da tempo pregavano per una visione.


Il primo Mission: Impossible, quello firmato da Brian de Palma, all'epoca di piacque davvero parecchio. Il secondo, invece, mi nauseò quasi subito (un gigantesco, odioso spot commerciale per automobili, capi d'abbigliamento e orologi). Il terzo di J. J. Abrams (e i suoi dannati lens flare) credo di non averlo nemmeno visto tutto. Ho sempre sperato però che la serie potesse risollevarsi scrollandosi quall'aurea pacchiana e polverosa di dosso. E la cosa sembra essere successa proprio con gli ultimi due capitoli.
In M:I IV - Protocollo Fantasma, Ethan Hunt e soci devono rintracciare un pericoloso terrorista dal nome in codice "Cobalt" che è entrato in possesso dei codici di lancio di missili nucleari russi. Il film funziona parecchio bene (anche più di quello successivo) forse anche grazie alla sapiente regia di mister Brad Bird (che di certe cose se ne intende).
In M:IV - Rogue Nation, il regista Christopher McQuarrie (che aveva già diretto TomTom Cruise in Jack Reacher - La Prova Decisiva) metterà gli agenti della IMF sotto torchio, sulle tracce di un'attività criminale che agisce nell'ombra, e a livello internazionale, nota come Il Sindacato.
Godibilissimi entrambi ma, ripeto, il quinto capitolo un pelo meno del quarto (impreziosito anche, e non poco, dalla presenta della bella Paula Patton).


Die Hard - Un buon giorno per morire. Ma il sottotitolo giusto sarebbe stato "un buon giorno per tenere il televisore spento". Già il quarto film (Vivere o Morire) si era rivelato un mezzo disastro. Questo è addirittura riuscito a fare peggio. Un filmetto insignificante che mal gestisce il peso della trilogia originale e che presenta un Bruce Willis vecchio, rugoso e privo di battute mitiche (una mezza bestemmia, insomma) alle prese con un figlio un po' ottuso a cui volentieri elargiresti una cinquina in faccia ogni due per tre ("porta rispetto a tuo padre, imbecille"). Automobili che saltano, elicotteri che sparano e nient'altro. Con l'aggravante che la regia (di John Moore) e il cast (Willis a parte, che non si tocca MAI), non dicono granché. Una disfatta.

The Equalizer, invece, è stata una bella sorpresa. Antoine Fuqua (volenteroso regista di Training Day, Attacco al Potere o del prossimo remake de I Magnifici 7) porta in scena un attempato ma sempre meraviglioso Denzel Washington nei panni di Robert McCall, impegato presso l'home mart di Boston. Le cose cambiano quanto Robert conosce Teri, una giovane prostituta russa che finisce immancabilmente nei guai.
Trama sottilissima (praticamente è quasi tutta qui), ma la sorpresa sta nell'essere spettatori del cambiamento repentino di Robert che dimostra di essere stato ben altro, prima del classico uomo qualunque, affabile e generoso.
The Equalizerè quel genere di film che dà soddisfazione a chi guarda, dove il protagonista è il classico raddrizzatorti che vince sempre e comunque, senza mai vacillare. Il cattivo di turno sembra un cattivo, ma al suo cospetto perde ogni fascino. E come si fa, ti chiederai tu, ad apprezzare una roba del genere? Si fa, si fa. Provare per credere.

Ecco. Se avessi voglia, potrei raccontarti tutte queste cose, ma non ce l'ho. Allora mi limito a salutarti come si confà con un vecchio amico di viaggio, sperando che si possa condividere di nuovo quei post(i) sul treno.Ma che se così non fosse, significherebbe solo che ho trovato di meglio da fare.
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